Africana, indiana, filippina le cucine che salveranno il pianeta

«Un’anima che non mangia pepe è un’anima morta», recita un antico detto nigeriano.

«Teniamolo a mente — suggerisce dalle pagine del New York Times la cuoca e stylist di Lagos Yewande Komolafe entry della sezione food del giornale americano — perché di ricette dell’Africa occidentale si sentirà parlare parecchio». Vero: in tutto il mondo c’è grande fermento. Chef emergenti, nuovi ristoranti di fine dining, qualche piatto pronto d’ispirazione «afro» nei supermercati (catene come Waitrose e Whole foods sono in prima linea). Le prove che questa è una cucina in ascesa, insomma, sono già tantissime. Oltre al riso jollof, rosso e invitante, al platano fritto e alle foglie di amaranto stufate — da qualcuno già definite il nuovo kale — che Komolafe ha raccontato ai lettori del Times, per esempio, sempre a New York lo chef Pierre Thiam ha da poco aperto un locale senegalese, «Teranga». E sta per pubblicare un libro sul fonio, il cereale senza glutine coltivato in quell’area che va dal Senegal al Ciad — l’Africa occidentale, appunto — altamente sostenibile (necessita di pochissima acqua) e nutriente (è ricco di proteine e fibre). Per di più ora acquistabile anche da noi, visto che l’Ue lo ha inserito tra i novel food, i nuovi alimenti per i quali è consentita l’importazione.

Poi: tra i finalisti del Basque Culinary World Prize 2019, il «Nobel del cibo» per i progetti a cavallo tra gastronomia e inclusione sociale, c’era la chef Selassie Atadika: dopo una carriera nella cooperazione internazionale all’Onu è tornata nel suo Ghana e ha aperto, ad Accra, «Midunu», un ristorante tutto al femminile che dimostra la raffinatezza della cucina africana e supporta le dipendenti nella ricerca di autonomia. Nel Regno Unito la giovane creativa Zoe Adjonyoh ha fondato «Ghana Kitchen», un supper club/ catering/ricettario di successo. Londra ospita anche il primo ristorante stellato nigeriano, «Ikoyi»: ai fornelli c’è lo chef sino-canadese Jeremy Chan affiancato dall’amico e socio di Lagos Iré Hassan- Odukale. A Parigi si contano «Ohinéné», ristorante ivoriano di Edith Gnapié, e il senegalese «Villa Masaai» di John Houssou.

In Italia? Notizia recentissima: a vincere il «Cous cous fest», storica competizione culinaria che si tiene a San Vito Lo Capo (Trapani), quest’anno è stata Mareme Cisse, chef senegalese del ristorante afro-siciliano «Ginger people&food» (Agrigento). Gli ingredienti decisivi: tartare dell’orto, mango, iohos (polpo) marinato e lessato secondo tradizione servito su crema di carote e zenzero con erbette e spezie di Salamba, «un particolare mix di coriandolo, chiodi di garofano, cannella e aglio che faccio io e che porta il nome di mia mamma, una pescatrice», racconta chef Mareme. Dunque, sì. La cucina dell’Africa occidentale è decisamente entrata nella mappa food (e gourmet) globale. «Ma non si tratta di una semplice tendenza — spiega lo chef Pierre Thiam, tra i più instancabili ambasciatori culinari della zona, da anni impegnato con la startup Yolélé Foods per aiutare i produttori africani a vendere il fonio all’estero —. Questa cucina esiste da secoli e ci sarà a lungo. Però finalmente l’Occidente ha capito che può avere un posto interessante nella “tavola del mondo”. E che può servire per diversificare la dieta di tutti».

Ecco il punto: accanto alla ragione modaiola («I foodies sono sempre in cerca di nuovi sapori e di nuove destinazioni», riassume bene Thiam) e alle opportunità di business (per le aziende, spesso occidentali), l’attenzione per le cucine «del Sud del mondo» è anche legata alla salute, all’ambiente e alla biodiversità. E il ragionamento si può senza dubbio estendere a quella indiana, vietnamita, filippina, indonesiana… Gli ingredienti base di molti dei loro piatti, infatti, sono vegetali, proteici e senza glutine, adatti quindi a una dieta meno ricca di carne e a chi soffre di intolleranze. E aprono nuovi scenari in termini di sostenibilità. «La maggior parte dei nostri raccolti — spiega Thiam, tornando all’Africa occidentale — resiste alla siccità. Cereali come il fonio e piante come la moringa, per esempio, hanno radici lunghe e profonde che cercano da sole l’acqua sottoterra, crescendo anche in zone desertiche. E poi fissano l’azoto nel suolo, creando migliori condizioni di sviluppo per sé e per le altre piante, mitigando di conseguenza gli effetti del cambiamento climatico». È quello che gli esperti chiamano circolo (virtuoso) dell’azoto, un fertilizzante naturale: più ce n’è nel terreno, più la vegetazione cresce e dunque più anidride carbonica verrà assorbita, facendo calare l’effetto serra.

Non è un caso che il Wwf abbia inserito fonio e moringa nella lista dei «50 alimenti del futuro salutari per le persone e per il pianeta» insieme a molti altri cibi provenienti dai Paesi in via di sviluppo: il teff (cereale diffuso tra Etiopia ed Eritrea), l’amaranto (coltivato in America centrale, ma anche in Nigeria), l’okra (verdura simile all’asparago, ma tipica dei Caraibi e dell’Africa, la più resistente al calore che esista al mondo), i fagioli di Bambara (legumi tipici del Togo), il miglio indiano e via dicendo.

Prendiamo proprio l’India. Altro Paese che, come l’Africa, in Occidente è — erroneamente — associato a una dieta poco varia, «buona ma povera». La cucina indiana in realtà è una miniera di gusti e di ingredienti, e ce ne stiamo facendo un’idea anche noi grazie a libri che ne raccontano le sfumature regionali (Coconut Lagoon, per esempio, si concentra sull’area meridionale del Kerala) e a chef che stanno raggiungendo traguardi altissimi. Per esempio Garima Arora, Asia Best Female Chef 2019 per i 50 Best Restaurants e prima cuoca indiana donna ad aver ottenuto una stella Michelin: 33 anni, di Mumbai, ex giornalista, ha lavorato con Gordon Ramsay, con René Redzepi, con Gaggan Anand. Nel 2017 ha aperto a Bangkok «Gaa», ristorante «indiano moderno», e il suo obiettivo è dimostrare che con quel patrimonio millenario di tecniche e ingredienti la cucina del suo Paese può trainare le altre dell’Asia, esattamente come l’italiana e la francese hanno fatto in Europa. «Invece di pensare ai nostri piatti come a semplice comfort food, noi chef indiani dobbiamo sforzarci di creare cose raffinatissime, cerebrali, a partire da prodotti umili. E la verità è che possiamo anche insegnare qualcosa al mondo: come cucinare le verdure per esempio. Solo noi, con la cottura lenta sul fuoco, sappiamo caramellarle e renderle così deliziose». Non è poco in un pianeta che cerca di aumentare il consumo di vegetali per ridurre quello di carne.

Ecco perché potrebbe essere utile ispirarsi, anche nella cucina di casa, alle ricette planet friendly di altre culture: quella vietnamita per esempio, il cui piatto forte, il pho, usa le parti meno nobili del manzo (ossa, tendini, petto) per insaporire e rendere proteico il brodo senza sprecare nulla. O il dal indiano a base di lenticchie, o il monggo filippino, verdissima zuppa di fagioli munghi — un altro dei 50 cibi del futuro — ricca di vitamine e molto gustosa. La ricetta arriva direttamente dal New York Times, che ha appena assoldato una food writer filippina, la chef Angela Dimayuga. Che stia per nascere una nuova tendenza?


di Alessandra Dal Monte

https://cucina.corriere.it/notizie/19_ottobre_15/africana-indiana-filippina-cucine-che-salveranno-pianeta-790d88e2-ef5b-11e9-9951-ede310167127.shtml?refresh_ce-cpAFRICANA&fbclid=IwAR28ND1GCCw1_SNK3h1Lkwg1hte7r3qkRb-J-fmTSR8OSJg_ORa9j8Pz4I0


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